Giosuè Borsi

 

Giosuè Borsi nacque a Livorno il 10 giugno 1888, in via degli Inglesi 2 (oggi via Adua) da Averardo e Diana Fabbri. Dopo aver trascorso gli anni spensierati della fanciullezza e degli studi superiori nella città labronica, si trasferì a Roma (1907) dove raggiunse la famiglia. Di lì, dopo la morte del padre, avvenuta improvvisamente nel dicembre 1910, la famiglia Borsi lasciò definitivamente anche Roma per raggiungere Firenze. Giosuè, travagliato da altri avvenimenti luttuosi (morte della sorella e del nipote Dino) e da responsabilità gravose, seppe infine ritrovare la fede in Dio attraverso l'amore per la donna della sua vita: Giulia.

Nel supremo sforzo della ricerca della Verità e nel rispetto della Patria che tanto amava, si arruolò volontario come sottotenente: trovò la morte il 10 novembre 1915, alla testa del suo plotone e, dopo il recupero dei suoi effetti personali, il suo corpo andò disperso e non fu mai più ritrovato.

Giosuè Borsi,

un cattolico al fronte

di CARLO ADORNI

 

 

 

 

Giosuè Borsi

Il sottotenente di fanteria Giosuè Borsi cadde nel primo giorno della quarta battaglia dell’Isonzo, presso una casa diroccata del villaggio slavo di Zagòra, il 10 novembre 1915. La notizia si sparse per il paese in guerra e l'Italia ne fu commossa: il giovane scrittore e poeta livornese era già abbastanza noto e conosciuto nonostante ancora la giovane età, e la fama aumentò, in quegli anni, con la pubblicazione di alcuni suoi quaderni, apice della sua mutazione religiosa e di alcune interessanti lettere dal fronte, piene di sentimento e realismo.

Di fronte alla sua morte, numerosi amici ed estimatori seppero riscoprirlo o conoscerlo per la prima volta: Ettore Romagnoli, mirabile traduttore e restauratore della più grande poesia della Grecia e di Roma, ne scoprì la serietà sostanziale, la fermezza, l'unità del suo animo, al di là delle maschere e degli schemi quasi imposti al personaggio. Lo scrittore e letterato Massimo Bontempelli ne rivelò l'ingenuità e la freschezza giovanile, ancora troppo lontane dalle delusioni dell' esperienza umana nel mondo.

Giosuè Borsi era nato a Livorno il 10 giugno 1888, da Averardo, valente giornalista, e Diana Fabbri. Dopo aver trascorso gli anni spensierati della fanciullezza e degli studi superiori nella città labronica, si era trasferito, nella primavera del 1907, dalla Toscana a Roma, dove la famiglia si trovava. Di lì, dopo la morte del padre (avvenuta nel dicembre 1910), la famiglia Borsi lasciò definitivamente anche Roma per raggiungere Firenze. Qui, dopo una giovinezza intensa e dispendiosa, Giosuè fu travagliato da eventi luttuosi e da responsabilità gravose, ma infine seppe ritrovare la fede in Dio attraverso l'amore per la donna della sua vita: Giulia.

Fu scrittore, giornalista, poeta, attore, dicitore insuperabile, apprezzato e conteso da tutti i salotti ed i giornali dell'epoca. Le sue opere principali sono i Colloqui tradotti in quattro lingue, le raccolte di poesie (Primus Fons e Scruta Obsoleta), le novelle (tra cui Fiorrancino), il Testamento Spirituale e Le confessioni a Giulia.

Nel supremo sforzo alla ricerca della Verità,.e nel rispetto della Patria che tanto amava, si arruolò volontario. Giosuè indossò prima il pesante grigioverde del soldato, festosamente; e non fu certo l'ideale di un momento, né quello della piazza guerrafondaia o interventista, o intenzionalmente rivoluzionaria e futurista. Egli sopportò l’aspra disciplina militare con un animo quasi fanciullesco, con tutto l'entusiasmo del suo spirito nazionale e patriottico. Lasciò tutto il suo mondo, la città, gli amici, i fuggevoli amori ed i fin troppo facili ed effimeri successi di una mondanità sorda, lontana e superficiale, congedàndosi da tutto con la serenità di un vecchio saggio e con la consapevolezza che quello potesse essere il suo ultimo viaggio.

La sua esperienza letteraria e militare (di soldato di Cristo), comunque essa possa oggi apparire, rimane tuttavia valida sotto il suo aspetto spirituale che scavalca ogni individuazione temporale, oltre la morte materiale, per sfiorare quella eternità che lo rende ancora attuale e vicino, nella difficile e complicata ricerca di noi stessi, uomini del nostro tempo. Né naturalmente è senza significato il fatto che a fornirci questa sentimentale. testimonianza di Fede e di ricerca della Verità sia un eroe caduto nella nostra Grande Guerra del '15-'18, ultima del Risorgimento di un popolo che riscattò ogni volta, a prezzo del suo sangue, la sua libertà. Giosuè non concepì la menzogna, come non concepì l'invidia, ed il suo franco entusiasmo venne a cozzare con quella industriosa tela di ragno di cui è tessuta tutta la vita sociale. I sapienti di ogni stagione non lesinano di battezzare l'entusiasmo giovanile di Giosuè per ingenuità e leggerezza. I sapienti, giovani o vecchi, non sanno che è preferibile mille volte lo slancio sincero e magnanimo alla loro conclamata saggezza, che pondera e misura ogni parola ed ogni gesto con gli scrupoli di un orafo, per adattarla al proprio danno o al proprio interesse.

Il poeta scriveva così ad un amico il 29 agosto 1915, alla vigilia della sua partenza per il fronte: «L'idea che vado alla guerra mi esalta e mi riempie d'esultanza. Sono felice, felice di andare a combattere. Chi m'avrebbe detto che un giorno sarei andato incontro alla morte come Mameli, Manara, Medici; che avrei combattuto in una guerra del risorgimento, con lo stesso animo dei garibaldini, con le loro stesse canzoni, contro lo stesso nemico! Ancora mi sembra un sogno».

Giosuè Borsi, già celebre, già giovane direttore di giornale («Il Nuovo» di Firenze) non fu in testa, con gli altri giovani, nelle sommosse universitarie, sulle piazze, per le vie delle città, in favore dell'intervento. Chiuso in un eremo spirituale, egli si stava confessando a sé stesso e a Dio nelle sue Confessioni a Giulia prima e nei suoi primi Colloqui dopo, pronto e sempre più preparato a fare il suo dovere. Già nel febbraio del 1915 si era arruolato volontario, come soldato semplice, per poter partecipare alla guerra nella maniera più oscura ed anonima.

All'Italia che rinnega la propria tradizione e lo spirito cristiano di amore e di civiltà, egli fa dono non soltanto della sua opera, ma della vita, risolvendo in sé stesso, prima che i fatti si conformino a questa suprema necessità di esistere, i maggiori dissidi che l'Ottocento aveva scavato nell'anima italiana.

Secondo il biografo e critico Vito G. Galati, nel suo «Borsi al bivio», la figura di Giosuè raccoglie e definisce armoniosamente le incerte speranze dei cattolici del Risorgimento. Nel Borsi lo stilista ed il credente, il soldato e l'artista sono una sola persona ed un solo spirito. Il pensatore ed il patriota, il poeta e lo storico, non sono che tanti aspetti di una stessa anima che vibra in una unica, armonica certezza: quella del Credente. Sulle sue orme egli quindi ricerca l'italiano nuovo (Homo ltalicus) che rinasce nel Risorgimento, non come l’hanno forgiato le guerre di indipendenza, le diatribe politiche e di Palazzo, le cospirazioni liberal-massoniche, dei monarchici e dei mazziniani, dei neo-guelfisti e dei federalisti, in combutta fra di loro, ma come espressione di una perfetta armonia religiosa e poetica, perfetta unione di una coscienza religiosa e civile. E al di sopra di ogni disputa politica, Giosuè ascende alla montagna della Fede, e non esita a spargere il proprio sangue. E se il Divino poeta con le paginette del suo «Dantino» raccolse la testimonianza del sangue del suo cuore spaccato dal piombo nemico, il Manzoni rafforzò in lui la convinzione che il suo sacrificio era una necessità che la Fede consacrava nell'Amore stesso di Cristo verso la sua pa­tria ingrata.

Se i bestemmiatori di Cristo tornarono a Cristo come Giovanni Papini, in cui lo sforzo della conquista spirituale ebbe spasimi atroci e disperazioni di follia, in Borsi, nonostante le contraddizioni più stridenti ed angosciose, riscopriamo quell’Italia degli italiani che col cattolicesimo voleva riannodare quel vincolo spirituale che l’Italia liberale aveva spezzato per calcoli contingenti.

Giosuè si sente l'animo cavalleresco di un crociato e s'illude di poter combattere «senza odio né livore», ma calato nella realtà aberrante di una guerra micidiale ed impietosa, combattuta per pochi metri di reticolato, ha attimi di sgomento e di riflessione. Arriva ad affermare che la guerra è «un terribile flagello» e che lui non è «così disumano e sanguinario da desiderarla, da volerIa lunga e crudele». Già prima di partire per la battaglia pregava con tutto il cuore: «Per i nostri nemici e fratelli, di cui forse dovrò versare il sangue caro e prezioso... Tra di- essi militeranno molti dei tuoi figli che t'amano... Fa che non lo dimentichi mai, Signore,... anzi, offrimi il modo di esercitare, sui campi di battaglia, con i nemici non meno che con gli amici, qualche virtù cristiana di pietà, di soccorso e di amore»..

In trincea, sulle desolate colline del Carso (Craoretto), Borsi manifestò le sue virtù cristiane ed umane, insieme ad una costante vita evangelica, francescana, sorridente, consolatrice ed imperturbabile. Rappresentò un esempio ed uno stimolo per i commilitoni e per i gregari, dagli ufficiali ai fantaccini. Qui completò la stesura dei suoi Colloqui sempre alla ricerca di una serenità interiore che rafforzasse in lui e verso gli altri la sua Fede in Dio ed il dovere che egli stava assolvendo. Ogni sua azione o parola infondeva allegria a tutto il plotone: la sera intonava canzoni di guerra, declamava liriche, leggeva superbamente brani di Omero e ottave dell' Ariosto. Era per tutti un antidoto alla tristezza di quelle ore drammatiche, entro cui si annidava non solo la paura della battaglia col nemico materiale, ma anche la paura di un nemico ancora più invisibile e sottile: il colera. Lo spavento di una morte quasi istantanea, senza gloria, livida, anonima, miserabile. Allora spronava tutti ad avvicinarsi a Dio ed ai suoi Sacramenti.

Nella vita militare, nella dura vita di trincea, egli trovava un campo ideale di elevazione spirituale: la povertà ed il distacco dai beni terreni, ricercati come amici; la rinuncia alla propria volontà ed al proprio piacere; l'obbedire più del comandare; l'accettare gli inconvenienti della promiscuità; il percepire e dominare la nausea di contatti spesso volgari e vili; il patire qualche ingiustizia, qual­che sopruso; ma nello stesso tempo aprirsi e parlare con gli altri, coltivare anime rozze, scoprire le recondite virtù umane, goderne la fedeltà, amare in esse un intero popolo, la Patria, e soffrire e combattere insieme a tanta gente diversa. Nelle Lettere dal Fronte, il Borsi ci lascia un vero e proprio trattato di psicologia militare, commisto di storie spirituali e crude realtà di guerra. Nei Colloqui dal Fronte, il 29 settembre 1915 Giosuè annotò tristemente che non molto lontano dal suo accampamento di Craoretto si era fucilato un soldato italiano disertore che si era macchiato di viltà e di disonore sul campo di battaglia di fronte al nemico: «Quando iersera lo seppi, il mio primo moto è stato di orrore, di pietà e di raccapriccio. Eppure bisogna che giustizia sia fatta. Speriamo che l'anima di quello sciagurato... sia ora in salvo, accolta dalla tua misericordia infinita... Se io mi ribellassi all'idea che un uomo può essere giustamente punito dai suoi stessi fratelli, io sarei per ciò indegno di vestire la uniforme del soldato...».

In una tenda a Zapatok (nella valle dell'lndrio) si incontrarono con Giosuè, per qualche ora e quasi casualmente, Prezzolini, Marpicati ed un certo fante Bondois di un vicino reggimento. Si parlò della prossima avanzata, data per certa dal fante, e che avrebbe guarito i battaglioni dal colera. Borsi parlò con semplicità della certezza della vittoria dell'Italia e della sua certa morte in battaglia, senza il più ben che minimo turbamento. Sembrava che il suo incontro con la morte fosse una sorta di appuntamento ineluttabile e necessario. Ed il 18 ottobre 1915, poco prima di quell' assalto finale, scrisse al fratello Gino: «Movendo all'assalto, vado incontro alla mia liberazione... non farò nulla per affrettare il destino... spero... di cadere da forte, sorridente e pago del dovere compiuto... sarò felice di avere dato la mia vita alla Patria e più felice ancora se il mio sacrificio non sarà stato inutile».

Durante l'assalto alle «case dirute» di Zagòra, nelle prime ore dopo il mezzogiorno del 10 novembre, mentre correva in testa ai suoi uomini gridando: «Viva l'Italia»! e tenendo nella mano destra una bomba, fu abbattuto da alcune fucilate in pieno petto. Né il cadavere, né la tomba im­provvisata dalla pietà dei fanti che lo amavano, furono poi più ritrovati. L'artiglieria nemica continuò a sconvolgere per altri giorni il terreno. Il cappellano del reggimento aveva tolto dalla salma degli oggetti (ancora conservati in gran parte del Museo Borsi di Livorno): il cilicio di Terzia­rio francescano, un Dantino intriso del suo sangue, la piastrina militare, il Vangelo della sorella Laura ed un rosario.

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